giovedì 7 aprile 2011

Stati Generali della Precarietà 3.0: Perfettamente inconciliabili


Strumenti e strategie per sabotare lo pseudo-welfare familista

Nel quadro complesso della crisi economica che attanaglia ogni giorno le nostre vite viene riproposto un sistema di governance che utilizza la famiglia come unico ammortizzatore sociale, ovvero come luogo di sostegno e riproduzione del sistema stesso.

In mancanza di un “vero” welfare il governo italiano, che interpreta le direttive europee come un invito a rincarare la dose, attraverso il Piano Carfagna Sacconi, definisce un modello di conciliazione lavoro-famiglia in cui le donne (mamme se possibile) sono le uniche a farsi carico delle necessità familiari e quindi sociali.

Viene proposta la conciliazione tra tempi di lavoro salariato e lavoro di cura in famiglia, senza considerare la realtà delle/dei precari/e e istituzionalizzando il fatto che il rapporto di moltissime donne italiane con il welfare è ormai stabilmente mediato dalla presenza delle donne migranti. Questa presenza ripropone su scala globale e rinnovata la questione della divisione sessuale del lavoro, rendendo il welfare non più solo un problema di prestazioni più o meno garantite, ma di rapporti di lavoro e precarietà.

Lasussidiarietà tra pubblico e privatosu cui si incentra il Libro bianco di Sacconi non solo punta allo smantellamento del welfare e alla delega del lavoro di cura alle donne ma decostruisce alla radice il concetto di Stato sociale stesso: il welfare perde la sua dimensione collettiva per tradursi in una sorta di assicurazione privatistica, sorretta dalla famiglia, dalla chiesa, dal volontariato, dal privato sociale, dal lavoro salariato delle donne, soprattutto, ma non solo, migranti. Tutto ciò si trasforma in un’ulteriore accelerazione della finanziarizzazione della previdenza, della salute, dell’istruzione.

Infatti il problema di trasformare stipendi sempre più magri e insicuri in risorse per la vita di figli, genitori e nonni, che è un problema sociale, è riproposto come “affare di donne”, anche quando il lavoro riproduttivo sia svolto non più solo gratuitamente ma in cambio di un salario. In questo senso vengono rafforzati i già ben strutturati ruoli sociali che ipotecano i progetti di vita di uomini e donne, deresponsabilizzando stato e imprese per tutto ciò che riguarda il tema del lavoro per la riproduzione sociale. La legge Bossi-Fini diventa uno dei pilastri di questo sistema nel momento in cui istituzionalizza la divisione sessuale del lavoro riproduttivo, mentre il tema della conciliazione non mette minimamente in discussione l’idea per cui la vita di cui si parla non è solo la cura degli altri, ma è soprattutto il mio/nostro tempo.

Partendo dall’inconciliabilità tra le nostre vite e questo modello vogliamo porci alcune domande:

Come rallentare e sabotare questo processo che ingabbia soprattutto le donne e privilegia soprattutto le imprese?

Come si passa dal riconoscimento, solo teorico, dell’enorme valore sociale del lavoro di cura svolto quasi esclusivamente dalle donne alla sua valorizzazione reale e alla piena condivisione del lavoro riproduttivo tra donne e uomini, dentro e fuori la famiglia?

Come si accede a diritti, e autonomia, senza passare per la subalternità alla famiglia e al lavoro produttivo?

Come riprenderci, donne e uomini, i nostri tempi e i nostri desideri?

Invitiamo tutte e tutti a discutere un nuovo Libro FUCKsia di desideri, aspirazioni e rivendicazioni che attacchi i privilegi e i profitti, e che si dia l’obiettivo di costruire strumenti effettivi per la liberazione di tempi e desideri di tutte e tutti, dentro e fuori il lavoro, dentro e fuori la famiglia.

FUCKsia book
Ribellule Roma, precaria.org, Fuxia block Padova, MeDeA Torino, Migrande Bologna (spazialtri@autoproduzioni.net)

martedì 8 marzo 2011

La nostra libertà è la nostra sicurezza


Qualche giorno fa una ragazza è stata violentata all’interno di una Caserma dei carabinieri a Roma. Oggi, in occasione dell’8 marzo un gruppo di studentesse e precarie è andato davanti agli uffici del comando dei carabinieri di Prato della Valle per consegnare una diffida all’Arma perché quanto accaduto non avvenga mai più.
Quest’episodio di violenza ai danni di una donna fermata e costretta all’interno di una gabbia ne segue tanti altri che hanno visto uomini protetti dalla loro divisa, dalla loro autorità, dal loro ruolo abusare di donne costrette dietro le sbarre in carcere, nei CIE e nelle caserme.

L’asimmetria dei rapporti di forza è alla base della violenza di genere e quale asimmetria può essere maggiore di quella tra un uomo in divisa all’interno delle mura della propria caserma e quella di una donna rinchiusa dentro una cella? Ed è ancora più grave se a questo gesto si accompagnano retoriche su poche mele marce o si tenta di dichiarare la ragazza violentata “consenziente”: quale libertà di scelta aveva?
La condanna di quanto accaduto deve essere chiara. Si parla tanto di sicurezza e di forze dell’ordine che la dovrebbero tutelare, ed è sui corpi delle donne che si perpetra la retorica securitaria che porta a militarizzare i centri storici, ad installare telecamere e ha dare libero sfogo alle più becere ordinanze comunali. La ragazza coinvolta in questo episodio di violenza era stata fermata per un piccolo furto in un ipermercato ed anche questo elemento è stato utilizzato nelle prime ore dopo la denuncia dei fatti per mettere lei sotto accusa provando a fare quadrato intorno ai militari coinvolti. È evidentemente inaccettabile che le condizioni di disagio economico, soprattutto alla luce del fatto che queste situazioni si stanno moltiplicando e diffondendo nell’epoca della crisi, vengano utilizzate per giustificare quanto accaduto!
Lo abbiamo detto in piazza più volte, dai palchi del 13 febbraio e dalle strade dell’autunno studentesco: la nostra libertà e la nostra autodeterminazione hanno bisogno di reddito e servizi, hanno bisogno di costruire assieme un nuovo paradigma sociale che nasca dalle nostre esigenze e dai nostri desideri.
La sicurezza che vogliamo non passa per militari e forze dell’ordine, ma per la socialità e la messa in comune dei nostri sogni e bisogni.
La nostra libertà è la nostra sicurezza.

domenica 27 febbraio 2011

Padova 27/2/2011 La nostra vita è libertà, desiderio e autodeterminazione!

La nostra vita è libertà e autodeterminazione!


Oggi pomeriggio abbiamo fatto irruzione al convegno pro-vita dal titolo "Intorno alla vita che nasce" che vedeva la partecipazione del giornalista lefevriano e creazionista del Foglio Francesco Agnoli e dell'Assessora all'Istruzione Elena Donazzan, promotrice della campagna per la censura degli autori non allineati nelle biblioteche del Veneto arrivata alle cronache come "Rogo di Libri". Qui sotto il testo del comunicato sulla giornata:


Si tiene oggi presso l’aula Morgagni del Policlinico universitario il convegno “Intorno alla vita che nasce”, organizzato dall’associazione anti-abortista “In punto di vita”. Una “nuova” associazione cattolica fondamentalista, di quelle che vogliono far passare come messaggi di pace, luce e amore i più miserabili, violenti e oscurantisti tentativi di plagio e negazionismo. Un’associazione nuova nella veste, ma vecchia nella sostanza: i soliti lefevriani, i soliti antiabortisti, i soliti fanatici pro-vita. Un’associazione di cui nessuno in questa città sentiva la mancanza.
Tanto meno ne sentiva la mancanza l’Università (pubblica, laica, antifascista), luogo in cui la superstizione e l’ignoranza propugnati da questi residui del passato dovrebbero essere messe al bando una volta per tutte, e dove invece si mettono ancora a disposizione aule, patrocini e finanziamenti per convegni privi di qualunque dignità scientifica. Come quello di oggi.
Tra ginecologi anti-abortisti, giornalisti antidarwiniani, professori di serie B invitati a parlare, spicca un nome estremamente significativo: Elena Donazzan, l’Assessore alle Politiche dell’Istruzione e Formazione della Regione Veneto, ideatrice del brillante progetto politico di censura dei libri di autori non allineati nelle biblioteche del Veneto. Una fascista che partecipa alle commemorazioni della X MAS. Una che del sapere critico, dell’istruzione pubblica e della laicità ha fatto i propri obiettivi di annientamento.
Sotto l’ingannevole titolo del convegno scopriamo, parola dopo parola, qual è il suo vero scopo: dimostrare l’”intrinseca indisponibilità della vita umana, dal suo concepimento alla sua fine naturale”. Vale a dire: negare per dogma la libertà di scelta di ognuno e ognuna rispetto al proprio corpo, ai propri desideri, alla propria sessualità. Al proprio concetto di dignità.
L'indisponibilità della vita umana significa rimettere in discussione il diritto di aborto, fondamentale diritto conquistato dalle donne di disporre del proprio corpo e di poter scegliere sul proprio futuro.
Significa imporre accanimenti terapeutici impietosi, come nel caso di Eluana Englaro, alla quale con un’ipocrisia disumana il governo e i fondamentalisti che lo sostengono hanno dedicato la Giornata degli Stati Vegetativi lo scorso 9 febbraio. E come se non bastasse, hanno proposto l'autoritario progetto di legge sul biotestamento in discussione in questi giorni alle Camere.
Significa imporre una visione ideologica, monolitica, fascista e integralista di vita, che diviene così solo un concetto strumentale e un dispositivo di controllo per limitare la libertà di scelta e l’autodeterminazione di ognuno.
Perché la vita di cui si fanno paladini i pro-vita è soltanto un feticcio svuotato della concretezza dell’esperienza, del corpo, delle relazioni, dei desideri e del conflitto. La vita che vogliono imporre è la negazione di ciò che è per noi la vita vera: libertà, desiderio e autodeterminazione!
Nessuno spazio a chi nega la nostra libertà di scelta!
La nostra vita è libertà, desiderio e autodeterminazione!

sabato 12 febbraio 2011

L'AUTODETERMINAZIONE NON HA PREZZO...




Dal 14 gennaio, da quando la prima agenzia stampa ha titolato Berlusconi indagato per la vicenda Ruby, si sono moltiplicati gli appelli delle donne a dare un segnale in merito a quest’ennesimo scandalo. E intanto ogni giornale, televisione, rivista del Paese ha dato sfogo alle peggiori pulsioni tracciando linee di demarcazione in base ad una presunta morale generale che divide le donne “per bene” dalle donne “per male”. Gli scandali sessuali che negli ultimi mesi hanno coinvolto il Capo del Governo sono stati immediatamente strumentalizzati.

Da una parte il peggior moralismo cattolico ha additato le ragazze coinvolte come modelli incarnati di donne disposte a tutto per ottenere qualche vantaggio e dall’altra troviamo un buonismo esasperato che individua in Ruby e colleghe le vittime di uomini di potere.

Questo tentativo di riproporre dicotomie incapaci di analisi e tanto meno di prospettiva di cambiamento, viene calato in un momento storico in cui le donne e gli uomini hanno scelto di rifiutare attivamente le condizioni di precarietà biopolitica loro imposte. Lo fanno nelle strade e nelle piazze italiane così come in molti Paesi europei e nord africani. E questo è segnale immediato di rivendicazione di autodeterminazione; l’uso strumentale dei corpi femminili a scopo anti-berlusconiano è solo un’ennesima foglia di fico che chi rivendica diritti e libertà non può che buttare al vento. L’ipocrisia morale che si cela dietro queste forme di controllo va individuata e smascherata perché è un ostacolo alla forza viva e nuova che le rivendicazioni sociali di questi mesi hanno mostrato.

La condizione precaria che ci troviamo cucita addosso è la stessa per gli studenti, per i precari, per i garantiti senza più garanzie così come per i migranti. Attraverso questa lente dobbiamo guardare la realtà di oggi liberandoci da ricatti e imposizioni che si manifestano in modi diversi, ma che, a ben guardare, si assomigliano tutti. Questa vicinanza l’abbiamo notata subito quando come studentesse e studenti abbiamo riconosciuto nel modello Marchionne una variante del futuro che ci si prospetta con la riforma Gelmini. E dobbiamo riconoscerla e combatterla anche quando in gioco viene messo il corpo femminile o meglio, un’immagine di esso stereotipata e irreale. Anche l’affaire Ruby rientra in questo meccanismo di ricatto. L’abitudine a pensare che attraverso il proprio corpo, purchè giovane e bello, si possa raggiungere un pezzettino di posto al sole non è altro che l’ennesimo ricatto, così come lo è il porsi nella posizione di guardare dall’esterno questa vicenda e stabilire categorie morali entro cui riconoscersi o da condannare. Ma noi viviamo nella realtà e qui di assolutizzabile non c’è molto, soprattutto quando questi presunti assoluti contrapposti nascono da un’idea bigotta delle relazioni e della società.

Proprio la presenza nelle piazze di tante donne e di tanti uomini il 13 febbraio, non solo contro questo attacco frontale ai corpi femminili e all’autodeterminazione, ma al sistema politico di potere che lo sta mettendo in atto, è indice di un’insofferenza diffusa. È il segnale di migliaia di giovani, donne, uomini che non sono più disposti ad attendere di essere rappresentati da qualcuno, ma scelgono di mettersi in gioco in prima persona ed insieme per spezzare un meccanismo di controllo perpetrato negli ultimi anni in maniera sempre più massiccia attraverso la costruzione di stereotipi e modelli falsi, attraverso l’induzione e la strumentalizzazione delle paure. L’utilizzo strumentale della paura, di un concetto di sicurezza che si trasforma in militarizzazione delle città e dei territori, vengono spazzati via dagli effetti sociali di questa crisi strutturale che pongono al centro l’insicurezza vera, quella delle esistenze e del futuro. Abbiamo cominciato a liberarci dalla logica di un individualismo ostentato perché abbiamo visto attraversando le nostre città con cortei, iniziative ed assemblee che la nostra forza nasce dalla cooperazione e dalla messa in comune dei discorsi e degli immaginari. La costruzione collettiva dal basso di nuove forme di relazione, di nuove pratiche di futuro deve partire da noi.

Questo futuro che stiamo cominciando a costruire ha bisogno di reddito e di servizi, di ridistribuire la ricchezza che noi stessi produciamo ogni giorno con i nostri corpi e le nostre menti. Vogliamo poterci liberare dalla ricattabilità perché solo attraverso questo possiamo riconquistare la nostra autodeterminazione e la nostra libertà. Siamo indisponibili a ricatti e precarietà, siamo indisponibili a farci rappresentare attraverso categorie che non ci appartengono e che sentiamo troppo strette per rappresentare quelli che sono i nostri desideri e le nostre vite.

È necessario riprendersi lo spazio pubblico, i momenti di discussione e confronto per dire chiaramente che il paradigma di controllo dei corpi e delle condotte che si prova ad imporre attraverso la dialettica vittime/colpevoli e sante/puttane è lo stesso che impone retoriche securitarie e precarietà.

La discussione che vogliamo aprire nei prossimi tempi deve muovere i propri passi dai nostri desideri, dalla nostra voglia di libertà e autonomia sapendo che per ottenerli abbiamo bisogno di reddito e servizi, sapendo che i cambiamenti nascono da noi e vanno costruiti e conquistati assieme.

…PER TUTTO IL RESTO… SERVE REDDITO!